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martedì 22 luglio 2014

E’ esattamente il contrario di quello che ci raccontano

Ancora una volta troviamo un articolo molto interessante nel dibattito spagnolo, le cui posizioni mainstream risultano ancora molto ancorate alla visione globale della Troika. Ciò nonostante, alcuni blog e periodici, tra cui EconoNuestra, stanno dando sempre più spazio ad articoli che definiremmo “eterodossi”, qualora qualcuno si sentisse ancora di definire come “ortodosse” le politiche di austerità che continuano ad aggravare la crisi economica degli Stati Membri della periferia dell’Eurozona.

 In questo articolo del professor Luengo si viene a ribaltare uno dei dogmi cardine dei sostenitori delle politiche di austerità, mettendo in risalto – ancora una volta – come la moderazione salariale non funga nel medio termine da volano per rilanciare la competitività industriale di un qualsiasi Paese. Il sillogismo
bassi salari ==> maggiori profitti industriali ==> maggiori investimenti ==> maggiore produttività ==> diminuzione della disoccupazione
è tanto lineare quanto smentito dai dati reali.

Via EconoNuestra
Articolo di Fernando Luengo membro del circolo 3E di Podemos y della associazione EconoNuestra. Professore di Economia applicata alla Universidad Complutense de Madrid. 
Uno degli assiomi più celebrati e diffusi dell’economia convenzionale: la crescita dei salari o il loro mantenimento su livelli elevati erode le capacità di crescita delle economie, in quanto si ripercuote negativamente sui profitti delle imprese. La contrazione o l’insufficiente aumento dei margini aziendali infiacchiscono il tasso di investimento, il quale incide negativamente sulla produttività, il tutto traducendosi finalmente in meno posti di lavoro e salari più bassi (questa sequenza è riportata nel diagramma [di seguito, ndr]

   E’ ESATTAMENTE IL CONTRARIO DI QUELLO CHE CI RACCONTANO
Non ci crediamo. Le politiche economiche applicate contro il vento e la marea dalla troika e dai governi comunitari, dalla implosione finanziaria e soprattutto negli ultimi anni, hanno realizzato questa diagnosi, che è servita anche per giustificare la strategia di svalutazione dei salari per guadagnare competitività nel mercato internazionale. Sono ricette buone per tutte le stagioni; erano buone in tempi di crisi, per recuperare il cammino della crescita e ridurre i livelli di disoccupazione, e lo sono adesso, per consolidare la (presunta) ripresa economica. Questo è ciò che accade con i principi religiosi, quando alcuni principi economici assumono lo stato di dogma della fede: non invecchiano, sono atemporali, soprattutto quando la politiche suddette risultano di grande vantaggio per i potenti. Non mi soffermerò a presentare l’abbondante informazione qualitativa e quantitativa che rende evidente lo strepitoso fallimento di queste politiche; per l’immensa maggioranza [della popolazione], non certo per le élite. Sì, ho detto bene, “strepitoso”, nonostante si affacci all’orizzonte un incipiente aumento del PIL. Dietro questa facciata si nasconde – per chi non la voglia vedere e per chi non ha altra occupazione oltre a mascherare e travisare i dati, per chi vive nel compiacente mondo della propaganda e della retorica – un’economia debilitata e una società in pezzi. Tornando alla figura precedente, voglio enfatizzare che, di fronte alla logica del pensiero economico mainstream, così amata dal potere, presentata come evidente e irrifiutabile, si deve opporre un’altra logica che ribalti l’argomentazione dominante (vedere l’immagine seguente).  E’ ESATTAMENTE IL CONTRARIO DI QUELLO CHE CI RACCONTANO  
Quest’altra logica pone in discussione quella mainstream a partire dalla radice. È stato il punto di partenza della riflessione proposta da quegli economisti (non sono pochi, né novizi della professione) che provano ad introdurre più complessità ai tradizionali (e conservatori) approcci dal lato dell’offerta , i quali non contemplano altre politiche che l’aggiustamento salariale permanente. Che ossessione, quanto fanatismo e ideologia! Questi economisti pongono al centro della riflessione e anche dell’azione dei governi e degli attori sociali la decenza e la democrazia applicata all’ambito delle relazioni lavorative. I salari degni, la negoziazione collettiva e l’esercizio dei diritti sindacali e cittadini all’interno delle aziende sono la chiave – insieme agli investimenti e ad una gestione aziendale competente – per un aumento di produttività delle imprese.
Questo è il cammino per mobilizzare e rendere dinamiche le risorse disponibili e per far sì che si utilizzino in maniera efficace. Niente a che vedere, ovviamente, con l’irrefrenabile degradazione delle condizioni lavorative, con la diminuzione dei salari, con la intensificazione dei ritmi di lavoro, con l’allungamento della giornata lavorativa, con la “spada di Damocle” permanentemente sopra i lavoratori affinché accettino l’inaccettabile, l’indecente; e neppure ha nulla in comune con la gestione autoritaria – e spesso poco professionale – delle aziende. Infine, voglio insistere che uno dei nodi gordiani della logica dominante consiste nel presupporre una connessione automatica tra i ricavi e gli investimenti, come se questi ultimi si manifestassero, in maniera inesorabile, in un miglioramento delle capacità produttive. Niente di più lontano dalla realtà. Esiste una grande evidenza della disconnessione, prima e anche durante la crisi, tra i tassi di guadagno e di accumulazione (quello che noi economisti chiamiamo formazione lorda di capitale fisso). Alcuni esempi di questa disconnessione: guadagni che si mantengono liquidi in attesa di opportunità di investimento profittevoli (non necessariamente produttive), investimenti in attività finanziari o guadagni destinati a pagare dividenti agli azionisti e a retribuire i gruppi direttivi. Tema importante, in quanto questa mancanza di relazione [tra guadagni e investimenti] è uno dei fattori che spiegano la crisi e si connota come una delle minacce più grandi per il funzionamiento adeguato della attività economica.

Fonte: RischioCalcolato

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